LE STALLE-PENITENZIARIO E LE STALLE-PATIBOLO DEI NOSTRI GIORNI

 

Da quando l’uomo decise di sottomettere e soggiogare alcuni animali pacifici e pazienti, di sfruttarli per fini agricoli (come trascinatori dell’aratro e dei carri agricoli) o per impossessarsi dei loro prodotti (latte, lana e, purtroppo carni e pelli), dovette anche inventare dei recinti e dei ripari per il suo bestiame.
Nell’agricoltura artigianale e nell’agricoltura familiare dei tempi andati, sia l’azienda artigianale che l’azienda familiare, operavano con un numero ragionevole e limitato di capi.
Una manciata di bovini, corredata da un paio di pecore e di capre, di un certo numero di animali da cortile, a volte di un cavallo e di un asino, ed anche di un paio di suini.
Il contadino e la sua famiglia stavano a stretto contatto di gomito con i loro animali, al punto che spesso, i volatili avevano persino libero accesso alla casa, al pari del cane e del gatto.
I pavimenti dell’abitazione rurale non erano di sicuro lucidi e lindi, e non potevano nemmeno esserlo, essendo costituiti il più delle volte da una massicciata di sassi nudi, alternata a liste o tavole di legno, poste a protezione delle zone calde della cucina e della stanza da pranzo.
Ma in compenso la vita scorreva felice e spensierata, anche se non esistevano la televisione e il computer.
Nessuno si sentiva solo e abbandonato. Nessuno si sentiva demotivato o annoiato.
L’aia era un grande spiazzo naturale di convivenza inter-razziale armoniosa, vivace e divertente.
La giornata veniva aperta di buon mattino, tra le 4 e le 5, dal canto del gallo. Seguiva il  coccodè delle galline ovaiole coi primi caldi raggi del sole.
Anatre e oche si contendevano rumorosamente gli spazi ristretti di una vasca d’acqua piovana.
Il maiale si rotolava nel fango, e si cimentava spesso in goffi e spassosi inseguimenti ai danni di una particolare gallina o anatra che aveva preso di mira. Si guardava bene dal rincorrere il tacchino, dopo che quello gli aveva fatto provare l’efficacia del suo becco.
Pulcini e anatroccoli giravano per il cortile sotto lo sguardo attento delle rispettive chiocce.
Al momento fatidico della colazione o del pranzo a fase di farine e di cereali, e di verdure sminuzzate direttamente sul ceppo, tutta la brigata si riversava intorno alla padrona di casa, a prendersi la sua porzione di carburante e possibilmente a ingozzarsi.
Scendevano dal tetto pure i colombi, i passeri e il pettirosso. E arrivavano anche i conigli, attratti dal profumo delle erbe tagliate e delle carote, sempre incluse nel loro menù giornaliero.
Non mancavano di certo le piccole baruffe e i piccoli screzi tra un animale e l’altro. Ma sempre entro termini civili e di buon vicinato. Una beccata, una rincorsa, un indietreggiare temporaneo, e tutto tornava come prima.
I buoi nella stalla ruminavano più tranquilli e indisturbati l’abbondante dose di fieno posta sulla mangiatoia, in attesa della loro usuale uscita giornaliera per i campi e le stradine di campagna.
C’era da faticare, ma ci si sgranchivano le zampe e la buona forma fisica era assicurata. Oltre al movimento, c’era la possibilità di brucare erba fresca e fiori di campo, una vera leccornia.
Ogni mucca veniva chiamata col suo nome personale, e riceveva le attenzioni e le carezze del contadino e della sua famiglia.
A volte persino le anatre e le galline venivano chiamate per nome.
Chiaro che non erano solo rose e fiori.
Arrivava pure là il tempo della macellazione. E i toni della festa rurale calavano di molto.
Tutti parevano ammutolire. Persino gli stessi contadini ne soffrivano, e ne avrebbero volentieri fatto a meno.
La vedevano più come una scontata necessità, a un obbligo professionale, e nel loro animo provavano un sincero dispiacere nell’affondare una fredda e crudele lama nelle carni dei loro amici prediletti.
Era un po’ come un rito propiziatorio in cui si doveva sacrificare qualche membro della propria famiglia rurale.
La morte violenta e controvoglia non era certo una cosa positiva e piacevole per le povere bestiole sacrificate, e nemmeno per quelle rimaste. Ma almeno esisteva la consolazione di una vita trascorsa in modo allegro e simpatico, e sempre in buona compagnia.
Tutto questo oggi non esiste più.
La vecchia fattoria multirazziale è stata sostituita quasi dovunque dalle stalle moderne razionali.
Quelli che erano dei ripari e dei luoghi di riposo per le mucche, sono diventati luoghi di alimentazione intensiva e di ingrassamento rapido, di prigionia e di inamovibilità assoluta.
Le stalle moderne non dovrebbero nemmeno chiamarsi più stalle.
Sarebbe più corretto definirle luoghi di brutale detenzione, penitenziari, anticamere del macello.
Stalle-patibolo, dotate di un cancello d’ingresso, dove gli animali entrano una volta sola per  essere assegnati alla propria postazione, e un cancello d’uscita, da percorrere pure una sola volta, dove gli animali vengono fatti transitare per il trasferimento alla camera di esecuzione, al loro finale patibolo.
L’umanità è tuttora impegnata ad eliminare del tutto dalle leggi internazionali la pena di morte, indipendentemente dal tipo di crimine commesso dai condannati.
Più che giusto. Questo è il simbolo di una crescita morale ed estetica del genere umano.
C’è da chiedersi a quando la moratoria sulla pena di morte per tutti gli animali innocenti e bravi, oppressi e perseguitati senza alcun motivo, tenuti in catene a vita nei lager più degradanti del mondo.
Eppure continuano a chiamarle stalle.

autore: Valdo Vaccaro
Direzione Tecnica AVA-Roma (Associazione Vegetariana Animalista)
Direzione Tecnica ABIN-Bergamo (Associazione Bergamasca Igiene Naturale)

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