La sagra delle patate di Godia – Udine
La sagra della patata è un simpatico appuntamento popolare per le genti d’Italia, a cavallo tra l’Estate agli sgoccioli e i primi segni dell’Autunno, quando la natura comincia a colorare le sue foglie, le cantine accolgono i primi vini dell’anno, e i funghi porcini cominciano a riempire col loro profumo i cestelli dei raccoglitori.
Pare che ci siano in tutta Italia oltre un migliaio di sagre della patata, a conferma che qualche velleità nutrizionale-naturalistica ancora permane nell’animo delle persone.
Ieri sera sono andato a Godia, paesino a Nord-Est di Udine, rinomato per la sua annuale ricorrenza in favore del prezioso tubero.
L’ultima volta era stata 3 anni fa, e già funzionava bene, in termini di bontà culinaria e di afflusso visitatori.
Ma ora le cose stanno andando addirittura a pieno vapore.
Proprio sotto il campanile di Godia, è stata ingegnosamente sistemata una maxi-struttura protettiva di pali metallici e plastica rigida, a prova di maltempo.
Difficile come al solito trovare parcheggi e, per un due manciate di gnocchi freschi a 3,5 € cadauno, devi prenderti uno scontrino e sobbarcarti una chilometrica lista di attesa che dura almeno un’ora.
All’interno del chiosco di preparazione e consegna gnocchi, c’è una ventina di donne impegnate allo spasimo per assicurare che la complessa filiera di produzione e servizio non vada in tilt, causando un collasso all’intero sistema.
Un quadro vivente di attività umana a ritmo frenetico
Nell’ora che aspetti pazientemente il tuo turno, l’unica distrazione possibile è osservare questo quadro di intensa e ritmata attività cuciniera dal vivo, senza rete e senza barriere.
Cinque contenitori metallici colmi di acqua bollente, nei quali vengono versati in continuazione gli gnocchi
preparati, tagliati e infarinati nel chiosco attiguo.
Due elementi nerboruti portano a ritmo nuovi contenitori sostitutivi, quando l’acqua dei recipienti precedenti comincia a perdere temperatura.
Quattro addette provvedono al ripescaggio degli gnocchi, che vengono poi disposti su una prosciugatrice meccanica a sbattimento, che li scuole e li libera velocemente dall’acquosità superficiale.
Un paio di altre donne versano sul prodotto i vari tipi di sugo previsto nel menù della sagra.
Due altre donne hanno in mano un mestolino con cui versano a turno il formaggio grana sui nuovi piatti pronti alla consegna.
Cinque o sei ragazze si alternano tese ed eccitate a consegnare le terrinette plasticate, fumanti e colme a metà, alla massa di gente affamata, in ansimante attesa di quel ben di Dio, mentre una loro collega scandisce a voce alta il numero progressivo delle prenotazioni.
Insomma uno spettacolo di organizzazione.
Una impresa commerciale intenta a battere il record di incasso
Una delle ragazze più giovani del chiosco, che pare essersi distratta per un attimo, viene seccamente richiamata da un funzionario sudato, stile KGB, che la redarguisce e la invita a dare una veloce passata con la spugna ai tanti vassoi accumulati in un angolo, prima che vengano riutilizzati per portare il cibo alle centinaia di tavoli disposti ordinatamente intorno alla piazza della chiesa.
Più che una modesta sagra di paese, sembra una autentica impresa commerciale intenta a battere qualche record storico di incasso.
Alle otto di sera, il mio scontrino porta il contrassegno 711 e, in mezzo alla folla affamata, gomiti appoggiati sull’asse-mensola del chiosco, attendo con infinita pazienza che chiamino il mio numero.
Ma siamo soltanto al seicentodiciotto.
Quattro conti in tasca alla Sagra delle Patate
Al ritmo di 100 numeri l’ora, con in media 4 piatti per ordinazione, si arriva a 400 piatti/ora che, moltiplicati per 5 ore utili e di punta, diventano 2000. Duemila per 3,5€ a piatto fanno 7000 € a sera.
Più gli altri stand con polenta e formaggio, patate e frico, patate fritte, e quelli con le varie bevande (vino, acqua, birra, aranciata), tutti altrettanto attivi, si può arrivare facilmente a 30 mila € per serata.
Spese di produzione forse il 10 percento, visto che il personale opera in chiaro regime di volontariato, e che le patate, pur essendo diventate ultimamente care, provengono dagli agricoltori della zona a condizioni di favore.
Il parroco di Godia, da pastore indefesso di anime, corre il concreto rischio di diventare un nababbo delle patate.
Viva e onore al parroco dunque, e al suo fedele gruppo di collaboratrici e collaboratori.
Non siamo invidiosi del successo, anzi, ben vengano le cose che funzionano con perfetta sincronia ed efficienza, e che producono pure ricchezza.
Nessuna intenzione di offrire spunti alla Guardia di Finanza.
Dopotutto, con questi soldini, si rimpinguano i capitali della parrocchia, si fanno le gite sociali della pro-loco, e tutta la gente rimane coesa, felice e contenta, con parroco, perpetua, campanari e sacrestani, tra i più gongolanti.
Tutti addosso al capriolo
Mentre aspetto ancora il mio turno, rilevo come la gente intorno a me, pure in attesa del suo numero, man mano che viene chiamata, cita ad alta voce le sue preferenze per vincere il brusio di fondo che proviene da tale assembramento.
Quattro gnocchi al capriolo e due al ragù, uno ragù e tre capriolo, sei capriolo, cinque capriolo e due ragù.
Motociclisti con fidanzatina procace al seguito, un giovanotto coi soliti tatuaggi al braccio e l’orecchino in evidenza, il signore anziano con moglie appresso, due donne legnose dai contorni spigolosi e dal sorriso esagerato, quasi divertite dal contatto contemporaneo della calca, due pezzi di figliole scollate e abbronzate appena arrivate dalla spiaggia di Lignano o di Grado, la signora pacioccona col seno in allegro spolvero, il solito maleducato che spinge per arrivare prima, ignorando che senza scontrino non ci sono scorciatoie per nessuno.
Una folla friulana varia e multicolore, esprimente però una unilaterale volontà e tendenza.
Vince il capriolo, alternato a volte dal ragù di carne bovina.
Su cento ordini seguiti a vista, nemmeno uno di gnocchi al pomodoro e nemmeno uno di gnocchi alla salvia.
Quando arriva il mio momento e ordino tre porzioni alla salvia, la ragazza, quasi imbarazzata per la meraviglia, mi chiede tre volte di seguito per sincerarsi che è vero, che non voglio pure io il capriolo come tutti gli altri.
Manca solo che mi chieda Come mai?
Deve aver pensato tra sé e sé trattarsi di un tavolo anomalo, di un tavolo di persone con qualche problema fisico.
Come si fa a prendere degli gnocchi alla modesta e miserabile salvia, quando la casa ti offre, allo stesso prezzo, la golosità e la versione esotico-selvatica del capriolo?
Le doti atletiche del capriolo non si acquisiscono cibandosi della sua carne in decomposizione
Siamo in Friuli, a 15 Km da San Daniele e a 70 da Sauris, poli ormai internazionali del prosciutto crudo Doc, e a 10 Km della fascia orientale del Collio, con tutti i Merlot, i Refosco, i Cabernet, i Picolit e i Pinot Grigio che hanno fatto di questa splendida regione friulana il Bengodi di un certo tipo di alimentazione.
Come si fa a pretendere da queste parti che la gente sappia, o almeno sospetti, che quella crema scura e saporosa di capriolo sono solo resti del cadavere di una bella ed agile bestiola che saltava e correva velocissima tra i cespugli, con la vita e la felicità dipinta negli occhi, prima che qualche sconsiderato cacciatore la abbattesse?
Come si fa a spiegare a questa gente che le doti atletiche e funamboliche del capriolo non si acquisiscono affatto cibandosi delle sue membra in decomposizione?
Come si fa a spiegare a chi vive di soli sapori, che quel sottofondo intrigante di selvatico arriva dai sapienti condimenti piccanti usati, dall’in più di sale-pepe e di erbe piccanti, e non dal capriolo stesso, dato che la selvatichezza del capriolo stava solo nella carne viva e non certo in quella putrefatta che non differisce in nulla da tutte le carni in putrefazione, siano esse di gatto morto, di topo, di cane o di capriolo?
Come si fa ad insegnare a questi giovani friulani che ogni porzione di capriolo ordinato è una ulteriore pugnalata alla memoria della povera bestiola brutalizzata, e un attentato ai caprioli che sono vivi e nobilitano i boschi attigui, almeno fino a quando qualche altro scaricatore deficiente di pallini non interromperà la loro aggraziata corsa?
Le ricerche parrocchiali di mercato.
Alla faccia dell’ambientalismo e delle raccomandazioni mediche.
Tre anni fa, alla Sagra delle Patate, c’erano solo 2 opzioni: gnocchi al pomodoro e gnocchi alla salvia.
Si vendevano molto bene, e la gente accettava di fare un pieno di patate, in alternativa alle abbuffate giornaliere di proteine animali delle varie specie. C’era qualcosa anche per i carnivori inveterati, che potevano rifarsi con polenta e salsiccia, alternata a polenta e formaggio.
E le cose andavano pure bene, in senso commerciale.
Ma pare che il parroco, imprenditore attento e impegnato, abbia condotto qualche ricerca di mercato, giungendo alla conclusione che, inserendo la versione al capriolo e al ragù, il successo, l’attrazione, la audience si sarebbero moltiplicati e rafforzati.
Aveva infatti ragione, a livello di numeri e di incasso.
Alla faccia delle raccomandazioni dei cardiologi e dei cancerologi del Nord-Est, preoccupati per le statistiche nazionali che mettono sempre più al primo posto il Friuli nella scomoda e disonorevole classifica dei malati di cancro, di ictus e infarto.
Alla faccia della nuova cultura ambientalista, che richiama la gente a usare più il cuore, gli occhi e magari il cannocchiale, per scrutare e scoprire la natura, appendendo al chiodo, o meglio ancora rottamando, quel maledetto strumento antisportivo di morte, quell’arnese spaventevole a doppia canna, quell’arma carica di violenza e di maleducazione che tanta sofferenza e tante malattie causa alle creature vive del mondo, uomini inclusi.
A un chilometro dalla patria di Chiara Cainero, medaglia d’oro olimpica a Pechino
Ma, si sa, ad appena un Km da Godia, ci sono Molin Novo e Cavalicco, patria di Chiara Cainero, brillante ed eccezionale medaglia d’oro del tiro al piattello in quel di Pechino.
Non ha fatto in tempo a rientrare che la hanno sommersa di elogi fino ad imbarazzarla, l’hanno osannata in lungo e in largo, come è anche giusto che sia.
Una medaglia d’oro alle Olimpiadi è sempre qualcosa di grande, come è fuori dalla norma che una donna spari 100 volte a dei piattelli che vanno senza preavviso a destra e a sinistra, colpendoli per ben 98 volte.
Non si vince un oro senza possedere dei numeri eccezionali.
Non nascondo che, da italiano e da friulano, ho pure io tifato per lei, non fosse altro perché suo padre era mio compagno di scuola alle medie.
Ma attenzione. In Friuli abbiamo pure diverse atlete operanti nella corsa e nel salto, nel nuoto e nella ginnastica, e pure negli sport di squadra, dove mi risulta che non siamo andati affatto bene.
Molto più produttivo e significativo sarebbe stato vincere qualcosa in quei settori, ferma restando la ottima vittoria della Chiara.
E’ diventata stella di prima grandezza, non solo in Friuli dove se la contendono a suon di inviti e serate, ma persino a Roma dove Napolitano e Berlusconi se la sono mangiata cogli occhi.
Non ce l’abbiamo dunque con la Cainero, e le perdoniamo persino l’inconsapevole gaffe, di aver dichiarato che mentre era in Cina, si era consolata abbuffandosi del delizioso prosciutto di San Daniele, legando così l’immagine del Friuli alla lavorazione infamante di un prodotto cimiteriale.
D’accordo che gli atleti di oggi, ignorando che campioni come Moses, recordman dei 400 ostacoli per dieci anni di seguito, era assoluto vegetariano, seguono dopotutto le istruzioni dietetiche dei medici sportivi.
Lo fanno pure le squadre di calcio.
Ma i risultati non sono per niente esaltanti.
Drogando gli atleti con la carne non si viene squalificati per doping, ma non si garantisce nessun equilibrio e nessuna qualità aggiuntiva agli atleti, che vengono semmai invecchiati e scassati anzitempo da queste diete micidiali, basate su processi leucocitosici incontrollati, che provocano pure alti e bassi di stimolazione, alti e bassi di battito cardiaco e di temperatura corporea, come tutte le sostanze dopanti.
Il fatto che l’Italia sia campione del mondo nel calcio, o che la Chiara Cainero abbia vinto la medaglia d’oro, non depone affatto a favore del prosciutto e delle diete stimolanti alto-proteiche.
Significa solo che tutti erano bravi e che ci hanno messo l’anima, vincendo non sole le gare, ma persino gli effetti certamente negativi e devastanti delle istruzioni dietetiche ufficiali adottate dalla federazione.
Manca la controprova specifica, ma avrebbero entrambi vinto, e continuerebbero a vincere meglio e di più, con un sistema nutritivo rispettoso del proprio apparato fruttariano-vegetariano.
Era meglio in ogni caso astenersi da dichiarazioni di quel tipo.
Uno che vince diventa un modello ed anche un esempio.
Se si vende per fare della pubblicità, ha almeno un alibi pecuniario.
Se parla a favore degli scannatori di maialini in generale, o della sua regione in particolare, fa soltanto una pessima figura, e la Repubblica Virtuale dei Suini che pure esiste nell’universo, potrebbe persino tifarti contro alla prossima occasione.
Tirare ai piattelli non ha niente di negativo in sé, e di sicuro si sviluppano doti di acutezza mentale, di prontezza, di riflessi, di precisione, soprattutto a quei livelli.
La precisione comporta pure regolarità, sacrifici, efficienza psico-fisica, atletismo, e dunque anche importanti doti morali.
Sport dunque da rispettare, a patto di saperlo distinguere dal suo cugino scellerato e maniacale, che si chiama caccia e pesca, e che ha in Italia, sia ben chiaro, un seguito di milioni di addetti, che danno supporto alle nostre rinomate industrie delle armi localizzate nel Bresciano.
L’anima, prerogativa esclusiva dei farisei.
L’impossibilità di attendersi degli spunti educativi dalle sagre o dai curati di campagna.
A quando una cultura più pacifica ed amichevole nei confronti di tutti gli animali prigionieri e liberi?
E’ evidente che non possiamo attenderci programmi, spunti educativi e buoni esempi, dalle sagre delle patate.
Meno che meno dai prelati di campagna che stanno dietro ad esse, essendo i reverendi in prima fila tra gli aguzzini e gli sterminatori di creature ricoperte di piume e di pelo, di creature vispe, simpatiche e innocenti, che non sono però dotate di anima, secondo gli autorevoli ministri terrestri del Creatore.
L’anima è, secondo la loro infallibile interpretazione, prerogativa dei cacciatori sputa-pallini e degli agricoltori farisei che con una mano danno la pannocchia al vitellino, e con l’altra nascondono dietro la schiena qualcosa di sinistro e luccicante che si chiama coltello.
Cosa che si commenta ampiamente da sé.
Patata, frutto di terra gradevole e immacolato
Ma questo scivolare dalle patate alla salvia a quelle al capriolo deve farci riflettere.
La patata, dopotutto, è un pomo, è simbolo classico di una risorsa naturale.
I francesi non la chiamano a caso pomme de terre.
Dovrebbe poter rappresentare il cibo innocente, pulito, sano, alternativo, con la sua pasta bianca o gialla o rossastra, sempre grate al palato, immacolate nell’aspetto, e profumate pure di buono e di terra pulita.
La sagra della patata dovrebbe dunque poter indicare alla gente una via alternativa, un modo per tornare almeno una volta ogni tanto alle sane e semplici abitudini di un tempo, quando la carne, se c’era e soprattutto se andava di inquinarsi, capitava sotto Natale, mentre durante l’anno si facevano grandi mangiate di patate, cereali e legumi, e l’unico cruccio era quello della frutta che scarseggiava, almeno nelle città.
Patata frutto di terra, ma completo e nutriente al massimo, sia da cruda, grattugiata con le carote, che cotta conservativamente e meglio ancora con la buccia integra addosso.
Al limite, buona anche con gli gnocchi, se preceduti da qualche verdura cruda enzimizzante.
Grazie alle bucce di patata crude, mantenutesi sotto i letamai delle dacie sovietiche, molti soldati italiani riuscirono a sopravvivere e a riportare la loro pelle a casa, nella disastrosa ritirata dal fronte russo,
come testimonia il grande romanzo Cento gavette di ghiaccio di Giulio Bedeschi.
Le sagre dai cros, du cavaddu, dei cinghiali e degli ungulati
Per ora esistono da queste parti la sagra del toro, col toro intero girato entro un gigantesco spiedo nella piazza di un paese della fascia pedemontana, la sagra dello struzzo, la sagra dell’oca, la sagra del coniglio, le sagre dai cròs (o sagra delle rane), quella delle lumache.
In perfetto allineamento poi con le sagre piemontesi, della Valtellina, della Toscana e delle varie regioni italiane, dedicate alla mattanza dei cinghiali, alla moccetta (carne essiccata di animale selvatico), alla bresaola di cervo e di camoscio.
In parallelo con le sagre degli ungulati, quasi che noi umani non avessimo pure delle unghie come loro, anche se deboli e fragili, al pari della nostra intelligenza, vivace solo in furbizia, ipocrisia e cattiveria.
In piena armonia con la Sagra du cavaddu, che si tiene nella penisola Salentina, in Puglia, ogni anno dal 22 al 23 agosto, e che nella edizione di questo anno ha visto il sacrificio orribile, indegno ed incivile di nove cavalli, animali nobili che nei tempi andati erano considerati intoccabili amici dell’uomo.
Nove cavalli che fino a qualche giorno prima venivano accarezzati e vezzeggiati dal loro infido amico umano, capace di cavalcarli e di parlare loro, di baciarne i grandi occhi innocenti, e poi di tradirli nel modo più vile.
Ma questo sorprende poco, se pensiamo che nel famoso Palio di Siena, ed anche in quello di Asti, i cavalli che si azzoppano vengono regolarmente eliminati perché non potranno più rendere come prima.
Mentre la loro carne equina al sangue continua a tirare, sotto gli stimoli e le richieste di gente anemica di sangue, ma soprattutto anemica di spirito, e a corto di informazioni tecniche corrette sulle proprie reali condizioni di salute.
In linea pure con la sagra dell’asino e quella del bufalo, dove l’unico rimpianto sembra essere quello dei trapianti mancati e impraticabili, vanamente agognati dai maschi focosi e nel contempo insoddisfatti della propria artiglieria sessuale.
C’è gente infatti che è pronta a divorare golosamente i testicoli del toro e del bufalo, venduti chiaramente a prezzo d’oro, ed anche il pene d’asino, sempre con la assurda chimera di assorbire poteri, di acquisire dimensioni specifiche, qualità penetrative e vigoria sessuale, tutte cose che a tale gente fa evidentemente difetto.
La sagra del cane e del gatto ancora no. Nemmeno quella dell’imbecille, ma è un peccato.
La sagra del cane e del gatto, quelle ancora no, perché la gente è stolidamente schifiltosa, anche se, qualche anno fa, un noto ristorante della zona nord-udinese venne scoperto in flagrante a servire carne di cane al posto di quella di capriolo, e anche se, verso il Vicentino, la carne di gatto sembra godere di ottima reputazione.
Pure la sagra del cigno ancora no. Troppo bello ed elegante. Meglio impallinare le anatre, brutte, laide e troppo chiacchierone. Meglio tirare il collo alle oche, così gli si può pure mangiare il fegato, che ci darà una mano a guarire dai nostri problemi epatici.
Peccato che non esista la sagra dell’imbecille e dello spostato. Si troverebbero clienti in abbondanza.
Il domani è tutto nelle carni alternative
C’è anche una tendenza sempre più spinta poi a cercare una alternativa.
Non una alternativa alle carni, questo mai (siamo forse impazziti?).
Una alternativa alle carni presenti, si intende.
Soprattutto per i carnivori annoiati che non trovano più nel solito manzo, nel pollo e nel maiale, gli stimoli di un tempo.
Il problema è quello delle forniture stabili e continue, nonché quello dei prezzi accessibili.
Peccato che la Thailandia sia lontana.
Fuori Pattaya, dove allevano coccodrilli, c’è un cartello bilingue in inglese e russo, dove si vendono eccezionali capsule di sangue di coccodrillo a 20 Baht l’una (50 Centesimi di €). Pensa che pacchia poter usufruire anche da noi di queste favolose opportunità.
Certi thailandesi mangiano gli scorpioni arrostiti col segreto desiderio di diventare essi stessi più incivili, pungenti e velenosi, caratteristiche niente male in un mondo che privilegia sempre più la cattiveria.
Ed esistono pure dei medici che prescrivono il sangue di tigre, per infondere coraggio a chi non ce l’ha.
Da noi ormai si parla sempre più spesso di bistecche di canguro e di coccodrillo, di carne di babbuino e di elefante, di rinoceronte e di gazzella.
Un mondo finalmente eccitante e pieno di prospettive.
La Nuova Frontiera, l’Eldorado e la Terra Promessa dei cannibali di casa nostra.
Dal collo delle oche si vuole passare a quello, assai più consistente, delle giraffe.
Peccato che siano scomparsi i mammùt e i dinosauri.
Ti figuri quali sagre iperboliche avremmo potuto organizzare?
Pensa poi che proteine nobili, esotiche, strane e sconosciute avremmo potuto assorbire!
La futuristica sagra degli gnocchi alla salsa di cadavere umano
Ma la prospettiva di fare ancora meglio, e di andare oltre ogni fantasia, esiste eccome.
La prossima sagra ventura, vista la notevole disponibilità a costi non esagerati, sarà proprio la sagra degli gnocchi alla salsa di cadavere umano, cui faranno da contorno le fette di polenta alla salsiccia umana e i grissini al prosciutto di ragazzino acerbo.
Tanto, il rispetto per le salme non esiste più, venendo esse decurtate sempre più spesso delle parti che più fanno comodo ai grandi trapiantatori di organi.
L’industria dei ricambi umani ha davvero ottime prospettive di sviluppo.
Per ora siamo tra i maggiori importatori.
Ma, tra non molto, potremo riorganizzarci e avviare un buon filone export.
Avremo l’appoggio di maggioranza e opposizione, trattandosi di un settore in grado di migliorare la nostra bilancia dei pagamenti.
I ricambi umani dimostrano infatti maggiore intercambiabilità e compatibilità di quelli sottratti ai cadaveri animali.
Incidenti a raffica sulle strade, ed anche incidenti drammatici sul lavoro, rendono poi la pietanza del futuro sempre più disponibile, fresca e pronta per l’uso, meglio se cruda, al fine di non disperdere micronutrienti.
Il fattore economico e la spinta imprenditoriale non mancano affatto.
Una sana ventata di cannibalismo integrale non farebbe affatto male a questa società infettata da degenerazioni vegetariane e corrotta dalla presente forma di cannibalismo timido e incerto.
Si potrebbe pure organizzare qualche missione di studio in Congo, o in Uganda, tra i corregionali di Idi Amin, al fine di apprendere qualche tecnica particolare di congelamento e cottura della carne umana.
Abbiamo scioccamente deriso per anni e per secoli l’Africa e il cannibalismo, senza renderci conto che quella invece era la genuina e la massima civiltà, quelle erano le tribù in grado di darci autentica cultura culinaria e vera illuminazione filosofica.
Nessuna offesa per carità. Questa è una valida alternativa al superato culto dei morti.
Da quando in qua siete diventati delicati e schizzinosi?
Via una buona volta le superstizioni sull’anima e sugli spiriti
E non succeda che qualcuno si offenda inorridito, si scandalizzi, si dica sdegnato per la mancanza di rispetto verso i poveri morti.
Voi che adorate i cadaveri, fino al punto di bramarli e di annusarne gli odori e tastarne i sapori, fino al punto di mangiarli e di tenerli dentro di voi per tutto il tempo che serve ad assimilarli, non andrete a fare dei distinguo fuori-tempo e fuori-luogo.
Da quando in qua siete diventati delicati e schizzinosi? Via la maschera. Addentare e silenzio.
I morti, cari signori mangiatori di carne, vi piaccia o no, sono tutti uguali.
Salme inanimate fatte di materiale organico in decomposizione.
La loro anima è volata da qualche parte verso altri lidi, migliori o peggiori non si sa.
Addentare le loro carni, le loro proteine nobili, i loro Omega-3, è una libera prerogativa vostra.
Non siete forse già dei convinti e impenitenti necrofagi?
Lo state già facendo così bene che non sarà affatto difficile diventare cannibali del tutto.
In più risolveremo finalmente il grosso problema degli scarsi spazi cimiteriali a nostra disposizione.
Manderemo finalmente a quel paese tutti gli irrazionali timori dell’al di là, tutte le superstizioni sull’anima, tutte le paure degli spiriti e dei fantasmi, tutti gli stupidi riguardi sui morti ammazzati e sul mondo ultraterreno.
Verso la nuova frontiera del materialismo puro e razionale.
La soluzione del cannibalismo totale che nemmeno il grande Napoleone aveva pensato.
Seppelliremo superstizioni, portafortuna e talismani, e avremo conquistato tutto d’un colpo la vera nuova frontiera del materialismo puro, maschio, concreto, solido e definitivo. Quell’ideale satanico e inconfessato che ci frullava da tempo nel cervello.
Nei nuovi cimiteri sintetici, ridotti e privi di cattivi odori, ci saranno targhette con nome e cognome, data di nascita e morte, e niente altro sotto il cippo alla memoria.
Esattamente come avviene per gli animali, i cui cadaveri non vengono sotterrati ma riciclati in quei capienti e putrescenti contenitori che sono gli intestini degli uomini.
Già Napoleone Bonaparte voleva globalizzare il mondo eliminando i cimiteri, obsolete, ingombranti e anti-igieniche vestigia del passato.
Ma egli aveva in testa il metodo del fuoco purificatore.
Non gli era venuta in mente la soluzione ancora più economica e radicale del cannibalismo totale.
Le cosiddette bestie sono ancora più brave degli uomini, perché non lasciano alcun segno ed alcuna impronta.
Vengono al mondo, vivono e scompaiono. Questo è l’ideale. Cominciamo finalmente a parlare di vera democrazia.
Tutto divorato in buon ordine e perfetta armonia da una popolazione di uomini depurati dai pregiudizi psicologici e spirituali.
Uomini finalmente rinsaviti, razionali e coerenti, privi di inquinamenti psicotici e spirito-patologici.
Una irripetibile missione economica in Sud-Africa e Mozambico
Già il professor Christian Barnard, che ebbi la ventura di incontrare casualmente e fuori dagli schemi a Città del Capo nell’ottobre 72, quando egli era all’apice della sua brillante carriera di cardiologo trapiantista, si era mosso nella direzione giusta.
Aveva appena messo un ennesimo cuore nuovo a un paziente tedesco.
C’erano stati risultati controproducenti con persone morte pochi giorni dopo l’operazione, per i soliti problemi del rigetto, che a quel tempo non erano stati attenuati come avviene oggi, ma la sua straordinaria abilità chirurgica e la sua estrema disinvoltura, la sua intraprendenza nel mettere parti umane nuove dove serviva, aveva lasciato stupefatto il mondo intero.
Facevo parte di una missione economica dell’Ice (Istituto Commercio Estero) di Roma, e rappresentavo una nota fabbrica udinese, in compagnia di una ventina di imprenditori di diversi settori, con al seguito un ministro e un sottosegretario.
Visitavamo miniere di diamanti e di pietre preziose, e studiavamo i potenziali di scambio economico del Sud-Africa e del Mozambico.
Turiddu Magnagatta, un grande della biancheria intima.
Ottantaduenne arrapato, con in testa il chiodo fisso della gnocca.
Tra i membri della missione ce n’era uno che definire eccezionale sarebbe riduttivo e inadeguato.
Già il nome e la specializzazione scatenavano l’ilarità.
Si trattava del cavaliere del lavoro Turiddu Magnagatta, premiato produttore di biancheria intima femminile.
Ottantaduenne, fisicamente rudere, inconsistente e spigoloso nel fisico, ma spiritualmente arrapato come un militare di leva tenuto per mesi a digiuno e a distanza dalla sua leccornia preferita, era una specie di mina vagante del gruppo.
Spariva sempre di circolazione sulla scia di qualunque essere di sesso femminile che gli si parasse davanti, a fianco, o a retro.
Ogni donna, bella o brutta, dai dieci anni ai novanta, dalla pelle bianca o nera, dai lineamenti flessuosi o anche ridondanti, che intravedeva all’orizzonte con la sua incerta visuale daltonica, diventava suo obiettivo immancabile.
A volte andavamo a ripescarlo per strada, fuori dell’albergo, trovandolo in stato di agitazione e di confusione mentale.
Ci dava preoccupazioni, ma era diventato una specie di mascotte della missione.
Non si sa se per posa o per conseguenza del suo avere sempre sottobraccio i suoi cataloghi aziendali, pieni zeppi di modelle nude rivestite dei pochi pizzi che lui disegnava per loro, il cavaliere, alto quasi due metri, magro come uno stecco, due occhi assatanati che saltavano fuori dalle orbite, aveva in ogni attimo e in ogni circostanza del giorno e della notte, un chiodo fisso nella testa: la gnocca.
Tutti pronti ad aspettare che tirasse le cuoia. Tutti pronti a sotterrarlo.
E lui non ne perdeva una. Le rincorreva in tutti i modi e a tutte le ore.
Mia moglie, e così pure i miei eredi, mi vogliono troppo bene, si aspettano solo che io tiri la ghirba.
Mi hanno già comprato sia una bara oblunga che un posto di lusso in cimitero.
Ma non sanno che dentro di me c’è ancora il vulcano che soffia.
La voglia di ciccia viva, dei miei cinque figli maschi messi assieme, non raggiunge nemmeno la metà di quella che io mi porto addosso.
E in effetti, era alla perpetua caccia di donne lungo i corridoi degli alberghi in cui alloggiavamo.
Ogni poveretta che per combinazione nefasta fosse venuta a contatto con lui, cassiera dell’hotel, donna delle camere, turista distratta di passaggio, finiva per diventare suo bersaglio.
Non solo cogli occhi e la parola. Allungava le mani, tastava ed accarezzava, con la stessa naturalezza che si usa con un cavallo o con una capra domestica.
Le vittime reagivano ovviamente e si accingevano a mollare uno schiaffo, ma poi, scoprendo che si trattava solo di un vecchio e malandato sporcaccione, carico di erotismo e di ilarità, la buttavano regolarmente in ridere e gli davano persino una manata sulle spalle.
Il negozio di gioielli e monili dell’Hotel Herengracht di Cape Town, dove eravamo ospiti, era in mano a una bionda esplosiva, ridanciana ed intrigante al punto giusto, con un petto generoso e in costante sovraesposizione.
Turiddu Magnagatta, aveva un suo tavolo con tanto di targa nominativa, presso la sala riunioni dove incontravamo gli importatori sudafricani. Lo cercavano in molti. Ma lui era sempre là, inguaribilmente ammaliato dalla sua bambola platinée.
Fortuna che la nostra sosta a Città del Capo durava solo 3 giorni, altrimenti la sua manifattura lombarda avrebbe subito un vero e proprio collasso contabile.
Quella bionda aveva capito le qualità irripetibili di quel cliente, e sapeva fargli le moine giuste.
E lui comprò non una o due, ma una ventina di collane e braccialetti d’oro, in un improbabile slancio di generosità verso la famiglia e la moglie che in questo caso gli serviva da alibi.
In realtà, ronzare appresso a quell’animale biondo, provocante e profumato, stile bambola alla Fred Buscaglione, stare a contatto quasi intimo con quel seno prorompente che gli sconvolgeva il sonno, sniffarlo roteandogli intorno naso e occhi a due centimetri di distanza, era per lui il massimo della goduria.
L’incontro illuminante con Chris Barnard.
Il vero cuore dell’uomo non è il cuore, ma è l’uccello.
Se solo trovassi Barnard, mi confidò.
Uno come lui, che mette il cuore nuovo, vuoi che non sia capace di risolvere il mio problema.
Il mio pipino si alza eccome.
Ma poi da un momento all’altro improvvisamente scompare, e mi lascia a piedi, orfano e disperato.
A volte non riesco nemmeno a localizzarlo.
Cosa va a perder tempo nei trapianti di cuore.
Il vero cuore dell’uomo non è il cuore, ma è l’uccello.
Cosa vuoi che gli costi incunearmi un pistolotto duro e inflessibile, sempre pronto all’uso, preso magari da qualche nero possente e nerboruto finito male.
Gli darei qualsiasi cifra.
Svenderei bara, tomba, casa, moglie (ma nessuno me la compra), figli e anche fabbrica coi suoi dipendenti inclusi, per pagarmi questo intervento.
Quando, il giorno dopo, notai Chris Barnard seduto nella hall come un comune mortale intento a leggere un giornale, non credevo ai miei occhi.
Mi pareva un gioco del destino. Avevamo parlato di lui a lungo il giorno prima.
Diedi le chiavi della mia camera e cinque dollari di mancia a un ragazzo della reception perché andasse a prendere la mia macchina fotografica e mi scattasse qualche foto assieme al grande chirurgo del mitico Groteshur Hospital.
E il tutto riuscì alla perfezione, visto che posseggo ancora quelle foto.
Barnard mi guardò divertito, quando gli sottoposi le richieste del vegliardo Magnagatta.
Dopo essersi assicurato che non ero un giornalista a caccia di scoop facili, mi confidò che il trapianto di membro rientrava pure nei suoi esperimenti e nei suoi programmi, ma che i risultati finora raggiunti, facevano prevedere tempi assai lunghi, dovendo in questo caso intervenire non più principalmente su muscoli e tessuti, come nel caso del cuore, ma su micro-nervature, su stimoli e riflessi.
Insomma, su due piedi la cosa non si poteva fare, e il cav. Magnagatta ne soffrì moltissimo, al punto di fare il viaggio di ritorno all’insegna della malinconia e della rassegnazione più nera.
Era irriconoscibile e pallido, e aveva la morte e la sconfitta stampigliate sulla fronte.
Rientrava in sede, nella odiata realtà famigliare e sociale, a rispettare il macabro appuntamento con i suoi inflessibili becchini.
La gente assatanata da straordinari ma virtuali appetiti sessuali.
Il cosiddetto male dell’agnello. Il perché l’asino si chiama asino.
Cosa c’entri questo lungo episodio con la sagra delle patate e del capriolo è presto detto.
La gente dei nostri giorni pare assatanata da straordinari appetiti sessuali, tanto maggiori ed esorbitanti quanto più compromessa e sminuita è la sua reale capacità penetrativa, quanto più rovinata e sbrindellata è la sua autentica voglia di vivere e di copulare.
Da queste parti il senso dell’ironia non manca, e si usa dire che Al à el mal dal agnèl, i crès le voe e i crès le pànse, ma i cale l’ucèl (Ha il male dell’agnello, gli cresce la voglia e gli cresce la pancia, ma gli cala l’uccello).
Una delle barzellette che circolano, la dice tutta su questo dilemma, su questo baratro esistente tra il maschio mediocre e impotente della realtà e quello magnificato e idealizzato nelle sue fantasie erotiche di stupratore mancato.
Lo sai perché l’asino si chiama asino?
Ognuno si sforza di trovare la risposta, trovando scomodo farsi bocciare su un quesito così banale.
Qualcuno risponde per via del suo ragliare particolarissimo che fa Hihoo, Hihoo.
Qualcuno dice che tutto dipende dalle sue orecchie sproporzionate.
Qualcuno infine abbozza alla sua scarsa attitudine ad obbedire al suo padrone.
No, la realtà è molto più concreta ed osservabile.
L’asino si chiama asino, perché, nonostante il suo smisurato membro, si limita ad esibirlo ed esporlo, si limita a puntare il sesso dell’asina, a farglielo solo assaggiare, abbozzando la penetrazione più che condurla a termine in proporzione alle sue esagerate doti dimensionali.
Più asino di così, si muore.
Un motivo più per bestemmiare il creatore.
Come si fa a fare un errore così eclatante e clamoroso.
Dare all’asino quello che sarebbe stato ideale per l’uomo?
Voli pindarici e fantasie erotiche dei maschi ammazza-femmine
Pensa un po’ se potessimo noi essere umani essere dotati di un arnese del genere.
Finiremmo non per penetrare le nostre donne, ma per trapassarle finalmente da una parte all’altra, per distruggerle, Dio-Maschio sia lodato, a letto e in tutte le altre circostanze possibili e immaginabili.
Offriremmo loro una buona volta quel servizio che ci chiedono da sempre e che noi, senza l’ausilio di prolunghe e Viagra e vibratori, non riusciamo mai a garantire, restando spesso con tanto di palmo di naso.
Il mito della penetrazione senza fine e della sofferenza fisica, il mito dell’estremo sacrificio connesso al piacere e al godimento.
Non fa forse così, in ordine rovesciato, la mantide religiosa, pure essa donna?
Prendiamoci una buona volta una sana rivincita, e strapazziamole tutte fino a farle urlare.
Più cadaveri mangi e più impotente diventi
Ai nostri tempi, ci pareva di essere degli autentici depravati perché, a ogni donna interessante, guardavamo gli occhi e intravedevamo contemporaneamente qualcosa di ancor più profondo e interessante.
Non ci rendevamo conto di essere normalissimi maschi doc, privi di ambizioni sanguinarie.
Tette, culo e vagina ci facevano (e per fortuna ci fanno tuttora) impazzire, ma non coltivavamo, nei nostri sogni e nei nostri piani quotidiani, la frenesia stupratrice, il desiderio di trapanare e di impalare in modo sadico la nostra donna, come succede a certi pervertiti dei tempi odierni.
Per noi il rapporto con la donna era qualcosa di tenero, romantico, divertente, delicato.
Non era sempre amore vero, ma c’era attrazione, interesse, voglia di scambio, curiosità per la partner.
Ora le cose sono degenerate.
O non c’è niente, se non il sospetto e l’indifferenza, oppure c’è qualcosa di troppo, di unilaterale e di sbagliato.
La bellissima invenzione divina dell’amplesso si trasforma in altre cose che vanno dal martello pneumatico
alla camera di tortura, al rapporto metallico e sadico.
Tutto questo non arriva a caso.
Le perversioni nel cibo e nel comportamento portano diritto alle perversioni nella sessualità.
A conferma che più sono i cadaveri che mangi e più impotente diventi, mentre la tua libido si trasforma da sano e naturale meccanismo predatorio in patologica voglia di umiliare, bistrattare, perseguitare e annientare sessualmente la controparte.
Ecco dunque la sagra del toro, con giovani ed anziani a leccarsi i baffi con lo sperma del disgraziato quadrupede morto, che gira ancora sbeffeggiato sullo spiedo gigante nel centro-piazza del paese in festa.
Ecco dunque la sagra dell’asino, dove la fantasia erotica viaggia sul tentativo di impossessarsi di quelle doti da sempre ambite in modo ossessivo ed inquietante.
Quando mai si riuscirà a far rinsavire la gente?
Quando mai si tornerà a mangiare cose fresche e vive, anziché cadaveri in decomposizione?
Non sarà certo il bonario e scaltro curato di campagna a contrastare questi strazi.
Il primo ad assaporare i marroni del toro, del bufalo, del cavallo da monta, o il supermembro del povero asino è spesso proprio lui, fine conoscitore del Refosco, del Merlot, e dei rossi più adatti a mandar giù tali emerite porcherie.
Salvo poi tutti pronti a trafficare in gran segreto e malcelato imbarazzo con ogni nuova formula di Viagra che arriva sul mercato.
La gente di oggi sembra aver perso davvero l’orientamento dei punti cardinali e il senso delle cose.
Pare aver perso non solo la capacità di saper dialogare con la propria coscienza e la propria anima, ma addirittura la semplice attitudine a percepire gli umori semplici delle cose, a riconoscere ed apprezzare il profumo esilarante e delicato di una rosa, distinguendolo dal sapore stomachevole, angosciante, e sempre in agguato della morte.
Prima ancora che portare la gente a lezioni di etica e di spiritualità, bisognerà prima re-insegnarle a distinguere i profumi veri della salvia e del rosmarino, quelli della stessa patata, la fragranza unica e vivace del pomodoro sulla pianta, opposta alla noiosa insipidezza del frutto da serra.
Quando mai si riuscirà a far rinsavire la gente, a restituirle un minimo di dignità, di sana voglia di mangiare e di bere naturalmente cose fresche e cose vive, anziché cadaveri e salme in decomposizione?
Quando si riuscirà a far capire agli innamorati della natura e del sapore di selva, che quanto cercano non si trova affatto nel cinghiale e nel capriolo, del cervo e dello stambecco, e che la carne di queste povere vittime non ha alcun valore ed alcun sapore aggiunto rispetto a quella degli animali in catene?
Quando mai capiranno che non bisogna confondere il sapore rivoltante della cadaverina col buon sapore di natura, che la salma del povero capriolo nulla ha di particolare per differenziarsi dalle altre salme, e che la cadaverina ha sempre e comunque l’insopportabile puzzo della fogna e il tanfo mortale e cimiteriale delle fosse comuni e dei colombari a ferragosto?
Quando mai si renderanno conto che, se si ama davvero la selva, ci si deve solo andare, respirando l’aria ricca di ossigeno e di essenze di mille diverse foglie e di ciclamini, assaporando gli aromi stupendi delle more, dei lamponi e dei mirtilli, raccogliendo le castagne e i funghi, mandando baci, carezze e benedizioni alle bestiole selvatiche che sbirciano innocenti tra i cespugli, e agli uccelletti multicolori nascosti tra i rami, che ci danno lezioni di musica e di felicità allo stato puro, anziché portar loro il segno della nostra maleducata perversione?
E quando mai uomini e donne rientreranno nel loro senno e, anziché praticare fughe fantasmagoriche dalla realtà, anziché desiderare abnormi e improponibili rapporti mega-galattici fatti di membri sproporzionati e vagine ultrabollenti, re-impareranno ad apprezzarsi di più per quello che sono, a darsi umilmente più morsi di apprezzamento e timide carezze, a penetrarsi in modo soddisfacente ed appagante col cuore e con l’anima, ma sempre entro i limiti ottimali offerti loro da madre natura?
autore: Valdo Vaccaro
Direzione Tecnica AVA-Roma (Associazione Vegetariana Animalista)
Direzione Tecnica ABIN-Bergamo (Associazione Bergamasca Igiene Naturale)
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